“Questo non è l’anno giusto per partire!”
“Con che coraggio vai! Ma lì c’è l’ebola!?!?!”
“Rifletti bene, c’è forte tensione internazionale in questo periodo, meglio non rischiare…”
“Che vai a fare? Mica puoi risolvere i problemi dell’Africa!”
Voci, moniti che riecheggiano inevitabilmente nella mia testa, ma rimasti intrappolati nelle paure e nelle ansie degli altri: un volo faticosamente è partito, tra ritardi ed imprevisti, ed io ne sono fieramente passeggera, di nuovo. Destinazione: Nairobi!
Gli occhi di quattordici muzungu (uomini bianchi), colmi di sensazioni diverse e personalissime alla volta di una terra dura, squarciata, che trasuda verità.
Alleata e al contempo nemica di questo secondo campo sarà per me la consapevolezza della realtà e delle persone che troverò e non troverò più. Mentre decolliamo il mio pensiero si va a posare proprio sulle persone che sto per rincontrare…so che l’abbraccio con te, mia Africa, sarà più affilato, ma non tornare sarebbe stato tagliente. Ci siamo! Tra un’ora ti riassaporo e ti prego non risparmiarmi nulla, perché io con te non l’ho mai fatto.
Ad attenderci l’intramontabile scuola bus, che insieme alle sisters, ci accompagnerà su e giù per la città, tra la terra rossa delle strade e gli sguardi incuriositi e diffidenti della gente.
Dopo le visite e i saluti di rito con le sisters e gli assistenti, partiamo subito con le attività. Anche quest’anno ci siamo occupati dello slum di Bangladesh, una baraccopoli di circa 900 persone e 100 famiglie, quasi tutti reietti degli altri slums. Praticamente impossibile provare a spiegare i sentimenti di gioia e commozione provati quando i bambini ci sono corsi incontro gridando i nostri nomi e canticchiando festosi le canzoni dell’anno scorso: mi sono resa conto che quel momento era stato desiderato per 365 giorni con la stessa intensità da entrambi, grata di tutto ciò si stava consumando davanti ai miei occhi: il miracolo della creazione, dell’esistenza, del semplice essere lì in quel momento e non voler essere altrove, di come fusi orari, oceani, guerre, dialetti non abbiano potuto niente di fronte alla voglia di ritrovarsi, quasi come se non ci fosse stata attesa, ma naturale proseguimento di un dialogo messo in pausa e destinato a riprendere ancora, ancora e ancora.
La straordinarietà dell’Africa è che riesce a farti vivere contemporaneamente stati emotivi opposti: nonostante l’esperienza dell’anno precedente rimango stupita da quello che mi accade intorno. I bambini ci coinvolgono con la loro energia, ogni giorno sembra una festa, ci divertiamo tutti con palloncini, balli e canti in cerchio, colori, giochi di squadra e lunghe passeggiate assolate lungo il fiume alla ricerca delle giraffe. Ripenso con affetto e stupore a come loro piccolissimi cercavano di proteggerci ed aiutarci, semplici episodi che riempiono dentro e a cui forse non siamo più abituati.
Ma in questo stesso scenario di armonia e condivisione autentica regna la povertà assoluta, la malattia, storie di sofferenza e violenza che la gente ci ha confidato durante le visite nelle baracche, pochi metri quadri di terra e lamiera dove però non mi sono mai sentita ospite ma sempre accolta.
Bangladesh, come Qwaery, poco lontana, è la realtà di bambini malnutriti e malati, che corrono tra spazzatura e vetri rotti, spesso scalzi. Proprio tra questi vicoli luridi e maleodoranti abbiamo fatto la conoscenza di Colins un bambino di soli 7 anni che ci prende per mano per portarci da sua madre, una donna sola e abbandonata con un bambino di appena 6 mesi, ce lo chiede con un filo di voce perché Colins sta diventando praticamente afono a causa di una banale influenza che trascurata è diventata bronchite. Purity, sua madre, ci racconta di quanto sia straziata per non potersi permettere le cure per suo figlio.
Ecco, io di fronte a tutto questo provo rabbia, non posso negarlo, non lo so spiegare né tanto meno giustificare, ma mi lascio colpire, mi apro perché chiunque, magari proprio tu che ti trovi a leggere questo mio pezzo di storia puoi provare a cambiare qualcosa, a non rassegnarti! Come ha dimostrato il nostro Dio attraverso suo figlio: per convincere la gente non bastano le parole ci vuole l’esempio!
Noi ci abbiamo provato con la ricostruzione di alcune baracche per le famiglie più in difficoltà, abbiamo provato a dare il nostro contributo a giovani donne sole: Josephine, Irene, Morine ,Purity…donne con l’anima a brandelli, vittime della scelleratezza umana, donne prigioniere della tradizione, sempre bellissime come tutto ciò che è vero, come la dignità dei loro occhi.
Un’esperienza diversa, ma altrettanto forte è la visita ai bambini delle suore di madre Teresa. Per chi non c’è stato è impossibile capire cosa si respiri lì dentro, dove la speranza e la rassegnazione camminano sotto braccio come due sposi all’altare, è una continua lotta tra rivincita e amarezze, in me suscita rabbia e amore. Gli stessi sentimenti che mi suscita Dio. L’amore che nonostante la vita, la malattia trasuda da queste anime, la rabbia nei confronti di chi non li ha tenuti con sé lasciandoli in un secchio della spazzatura, di chi ritiene la malattia una stregoneria invece di un motivo in più per farcela. Sono arrabbiata perché non si può lasciare un bambino e anche se dalle suore si trovano in un lembo di paradiso, appena fuori di lì si scatena l’inferno dei fumi delle droghe, della prostituzione, degli abusi, sembra surreale ma è vita vera dove la gente parla e si muove ma soprattutto vive.
Chiedo alle sisters di alcuni bambini dell’anno scorso: molti sono tornati a casa perché sono guariti o i genitori li hanno ripresi con loro, altri ancora adottati, e mentre cammino tra i bambini allettati provo a donargli le mie carezze migliori, vengo colta da un tenue senso di speranza e gratitudine nel vedere l’orfanotrofio semivuoto e molti bambini che stanno meglio, è un inno alla vita anche nel mezzo di Kariobanji, dove a volte la vita sembra essersi arresa.
E forse è proprio questo l’insegnamento che mi ha dato l’Africa: la vita è fatta di tentativi, pone domande a cui probabilmente non troveremo riposte, e non per questo dobbiamo smettere di cercarle, perché magari nel frattempo ne arrivano altre inaspettate, risposte che spero un giorno coglieranno anche coloro che mi hanno mosso le questioni con cui apro questo mio racconto.
Ed è la percezione vivida della speranza che ho odorato in questo campo che mi da la forza di pensare che ce la possiamo davvero fare, ma ci vuole impegno! Ce la possiamo fare se diventiamo meno conservatori, se smettiamo di vedere il nostro vicino “straniero” ma semplicemente “Uomo”, se ci reinventiamo, creandoci opportunità. Probabilmente chi mi diceva che noi non avremmo mai potuto cambiare le situazioni difficili di quelle persone aveva ragione, perché le cose non possono cambiare, ma sicuramente si possono muovere e nel movimento delle cose, delle idee e delle volontà io ci credo fermamente e non provate a dirci che anche questo non è possibile, perché con noi non attacca.
Grazie per averlo pubblicato
Leggere questa testimonianza così bella è come ritornare per un momento, non solo con la mente (quello succede spesso!), ma anche “fisicamente” tra gli amici dello slum. Rumori, sguardi, abbracci che riappaiono potenti. Sensazioni ed emozioni forti, che ti segnano e ti lasciano un segno addosso. Grazie Diletta per questa condivisione, che so essere fatta davvero con il cuore.