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La notte del nord è fredda, la nebbia avvolge un giovane neofita di ritorno dall’Africa che, tra decine di volti bianchi, riesce quasi a sentirsi a disagio. È così che ricomincia la vita di sempre, quella che un “grassottellone” come il sottoscritto, avverte come una delle tante magliette di taglia sbagliata acquistate troppo di fretta e che indossate ti fanno proprio sembrare un insaccato di tutto rispetto… mi sento già stretto qui!
DSCN6676Qualche ora e ci si trova dietro a una cattedra, in una scuola ai piedi del Monte Rosa, a riprendere le lezioni quotidiane, in preda alla furia di fine quadrimestre, tra verifiche, registri e scrutini. Ma chissà perché, porto con me un sorriso incredibile e speciale donato da gente che non avrebbe all’apparenza neppure una briciola di motivazione per sentirsi felice. Chissà perché la mia valigia è così piena della loro speranza, dei loro insegnamenti meravigliosi o semplicemente: piena di loro!
Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere nuovamente fermo qui, a casa mia. Eppure questa è stata l’Africa, questa è la vita che scorre tra i rivoli maleodoranti dello slum, questo è un grande insegnamento, alla faccia di chi ancora crede nel triste e lugubre “continente nero”.
La povertà, la miseria, l’umanità ridotta nel lezzo della spazzatura e delle fogne a cielo aperto, è innegabile. La sofferenza si avverte come brividi sulla pelle pelosa, color maiale, del muzungu. Le decine di disagi e le grandi tragedie di ciascuno degli abitanti della baraccopoli, stringono il cuore e inumidiscono copiosamente gli occhi increduli. Ma questa parte nell’ombelico del mondo è tutta un tripudio di colori: la terra è di un rosso vivo, il cielo ha una profondità azzurra intensa che si confonde con le acque del lago popolato da temibili ippopotami, sembra quasi voglia piombarti sulla testa, quasi piegato a volerti abbracciare. I tramonti si dipingono di amaranto mentre la grande palla rossa, cala dietro i bananeti in fiore. E la notte è di un nero pesto mentre le stelle si contano una ad una e sono di un giallo luminoso che irradia il cielo.
Forse piace pensare che sia Dio che, come lo splendido cielo d’Africa, stringe a sé teneramente questa sofferenza, questi malati, questo disagio e questa miseria senza ritegno. Ed io alzo gli occhi al cielo, ai piedi delle Alpi, e mi sento di ricominciare a correre (goffo come sono ma va bene lo stesso!) perché come disse Madre Teresa “fate che chiunque venga a voi se ne vada sentendosi meglio e più felice”. Anche qui, nella mia terra natìa, ringrazio Dio come facevano le Sisters nei loro splendidi e ritmati canti.
Lo ringrazio per ogni alba, per i coloratissimi fiori di Ibiscus davanti alla Giacomo Hall, per il riposo all’ombra del sicomoro, per il fruscio degli alberi di banano, per i frutti offerti, per il mais raccolto tra i sassi, per Fides, Labam e David, per il sorriso strabico di Tony, per le puzzette a tradimento di Obama, per l’abbraccio di Mitchel, per gli intrecci di vite come fili di un tessuto pregiato, per gli occhi e gli sguardi indelebili degli angeli ospiti delle Sorelle della Carità, perché semplicemente respiro, perché ancora mi arrabbio con i miei studenti pelandroni e mi scontro nella mia realtà lavorativa e famigliare quotidiana. Mi convinco che Dio non è David Copperfield e non fa magie straordinarie per dimostrare che “lui può!”. È un Dio che ho conosciuto meglio saltando tra una pozza e l’altra nello slum, fermando il sangue infetto di un bimbo feritosi giocando, è il Dio degli ultimi, quello che sta accanto all’ultimo della fila, che lo coccola o lo tiene in braccio quando è stanco e sfiduciato, nel silenzio struggente apparentemente di assenza.
Sembrerò ebete ma oltre al viso abbronzato, porto un sorriso stampato nel cuore nonostante la rabbia per ciò che ho visto, vissuto e curato come ho potuto. Poi magari prenderò in mano forchetta e coltello e stasera mi abbufferò a cena, laverò il bucato che proprio sporco non è, non raccoglierò i semi di mais tra la ghiaia in cascina… anzi togliamo il magari…
Ma non mi rassegno, non voglio abituarmi, voglio cambiare e prendere parte di questo cambiamento passo dopo passo… in fondo, Qualcuno, mi avrà voluto in Africa per qualche motivo no!?!? Mi piace concludere con una citazione di Coelho:

“avremmo davvero bisogno di essere stranieri a noi stessi cosicché la luce nascosta nella nostra anima illumini ciò che esiste intorno a noi”.

E allora al lavoro, passo dopo passo.

Guido

Trenta dodici… stranieri a noi stessi!

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