“Non posso pregare un Dio che vuole tutto questo…non posso…”
Questo, quello che ho sentito dentro di me durante una delle messe serali di fine giornata.
Eravamo appena tornati dall’orfanotrofio delle suore di Madre Teresa. Un cancello in lamiera nel mezzo dello slum di Kariobanji, forse uno degli angoli più dimenticati della periferia del mondo.
Tante mani, tanti occhi, volti, colori, quanti odori, quante storie, un turbine di emozioni e sensazioni si sono impadronite di me nel susseguirsi di giorni così intensi, quindi sarà difficile per una neofita dei campi come me dar loro una forma concreta, ma proverò a procedere con ordine.
È la notte di Santo Stefano ed un gruppo di 28 “muzungu” (“uomini bianchi”, così ci apostrofavano i bimbi negli slums) è pronto a partire alla volta di Nairobi, pieno di aspettative, di speranze e anche paure. Dopo dieci ore di volo, un po’ frastornati, mettiamo piede in terra d’Africa, ad attenderci con un gran sorriso c’è Sister Mary, che si dimostrerà sempre disponibile e attiva sul campo.
Si parte!
Dopo la suddivisione in gruppi, ognuno di noi si è dedicato con devozione al proprio compito:
ricostruzione baracche, coltivazione di orti nei sacchi, animazione e gioco-sport per i bambini negli slums, assistenza e giochi ai bambini e disabili all’orfanotrofio di Madre Teresa.
Le prime tre attività si sono svolte principalmente nello slum di Bangladesh.
Bangladesh è una baraccopoli di Ongata Rongai, località al nord di Nairobi, un ghetto dove si sono rifugiati molti dei malati, cacciati dagli slums limitrofi. L’impatto è stato veramente forte, ma non c’era tempo per riflettere perché siamo stati circondati immediatamente dai piccoli del villaggio, i loro occhi enormi, neri come la terra pavimento delle loro “case”, come l’aria che si respira, ci hanno conquistato dopo pochi minuti che eravamo lì.
Per la prima volta ho preso la mano di un bambino africano, sporca, fragile ma l’ho sentita più grande e forte della mia, avvolgeva completamente i miei pensieri, spostava improvvisamente le mie priorità.
La vita dello slum è surreale: mercato nelle case, case che diventano mercati, fogne a cielo aperto, aria pesante, irrespirabile anche a causa delle esalazioni delle colle che respirano i ragazzi più grandi per sopperire al senso di fame.
Donne bellissime, dai lineamenti forti ma dolci si adoperano, spesso giovanissime, a infoltire le famiglie già straordinariamente numerose. L’economia domestica grava interamente sulle loro spalle, in una società fortemente maschilista dove sono le donne a lavorare mentre gli uomini prepotentemente decidono delle menti e dei corpi di questi angeli del focolare. Nei loro occhi la rassegnazione e la forza di chi non può sottrarsi al proprio destino.
In questo background con discrezione ci siamo inseriti noi muzungu, con la sincera intenzione di fare qualcosa di utile per quelle persone, ma è stato sorprendente constatare come in realtà siamo noi ad essere in debito con loro per quanto ci hanno donato.
In pochi giorni, i ragazzi addetti alle attività manuali, hanno ricostruito due baracche, con fatica e senza risparmiarsi mai, senza arrendersi nemmeno al sole africano che batteva prepotente durante le ore lavorative, e con sorpresa aiutati alacremente dai “padroni di casa” Mike e Benson. Non stanno lì inermi a pietire i doni dell’uomo bianco, ma chiodo dopo chiodo hanno visto le loro casette in lamiera prendere forma. Hanno desiderato finalmente un nido più confortevole per le loro famiglie di sette e dieci figli. Forse qualcuno di quegli uomini ha cominciato anche a capire l’importanza e la dignità del lavoro, proprio uno di loro infatti pieno di commozione davanti alla sua nuova casa ci ha confidato di voler finalmente prendere in mano la sua vita e fare qualcosa di concreto per la sua famiglia.
Un miracolo, uno dei tanti che ci ha concesso questa terra.
La terra. Questa terra così sterminata, forse neanche lei sa quanto può dare, una terra carica di tutto. Contaminata da sporcizia, vetri, spazzatura, carcasse animali la stessa terra che ci offre una natura lussureggiante e rigogliosa, dai banani straripanti di frutti alle gole profondissime della Rift Valley, regalandoci il meraviglioso ciclo della natura.
Infaticabili i ragazzi addetti agli orti caricavano sacchi di pietre e di terra vergine. Riempivano enormi sacchi posizionando prima le pietre per il drenaggio e poi palate di terra, che sarà presto seminata, per dare frutti buonissimi.
Nella semplicità della semina è racchiuso il mistero della natura che toglie e da incondizionatamente nel ciclo della vita da sempre e per sempre, perché nonostante l’uomo, nonostante il mondo la natura nel suo divenire vince sempre.
Per consentire un lavoro più agevole ai gruppi addetti ai lavori manuali, noi altri ci occupavamo dell’animazione e dei giochi per i bimbi abitanti dello slum. Qui, facciamo conoscenza di occhi, mani, volti e storie incredibili. In pochissimo tempo dai più grandi ai più piccoli cantavano tutti in coro, in italiano perfetto, i nostri bans mentre noi eravamo completamente rapiti dai loro canti e dalle loro danze, il loro ancheggiare e quei piedini scalzi e impolverati a scandire festanti il ritmo, ritmo che trasuda vita, ritmo della terra che produce energia.
Palloncini, luna park, olimpiadi, colori per la faccia, perline, ogni giorno cercavamo di trovare qualcosa che li sorprendesse che regalasse loro almeno un sorriso in più di quello che gli avrebbe riservato quella giornata, perché a Bangladesh le giornate sembrano susseguirsi tutte uguali, lente, assolate, scarne. A Bangladesh non è mai Natale, ma lì ho scoperto il senso del donare e del donarsi, il vero significato della condivisione, mi sono sentita piccola davanti alla grandezza di quello che mi stavano offrendo ogni giorno anche i piccolissimi.
Mi ha colpito il profondo rispetto delle cose e delle persone, valori che nella civilissima e bianchissima Italia spesso non ho trovato.
Mi ha colpito Ruth, una bambina di 6 anni, che durante la cerimonia di benedizione delle baracche assaggiava, forse per la prima volta, il pandoro. Non ha esitato nemmeno un istante a privarsi del suo pezzettino per imboccare suo fratello più piccolo, come una mamma premurosa.
Mi hanno colpito Anastasia e Marion che alla fine di un litigio si dividono una tazza di acqua potabile, lì dove l’acqua è il bene più raro e prelibato.
Mi ha colpito David che scalzo aiutava i piccolini, prendendoli uno ad uno sulle spalle, a scendere da un piccolo dirupo.
Nella loro innocenza e incoscienza di bambini non immaginano quanto mi senta debitrice nei loro confronti, hanno capovolto totalmente il senso del mio campo: ero andata per dare e invece mi trovavo a ricevere. Conquistare la fiducia di quelle piccole anime mi ha fatto sentire viva e appagata, e ogni sera stanca, prima di addormentarmi, ripensavo a tutte le manine che avevo stretto durante la giornata e me ne sentivo responsabile.
L’ospitalità e la laboriosità delle Evangelizing Sisters of Mary nella loro accogliente struttura, un’oasi nel degrado degli slums, ha fatto si che potessimo affrontare al meglio queste nostre giornate di campo, lì abbiamo conosciuto un’equipe di dieci persone che da soli si occupano di 3.200 bambini con l’obiettivo di garantirgli un futuro e un’istruzione, sempre sorridenti ed energici trovano anche il tempo di accoglierci e coinvolgerci nelle loro attività. Il più giovane dei collaboratori, Kim, ci racconta di essere stato proprio uno di quei bambini seguiti dal team delle suore ed è grazie a loro che oggi può mettere la sua istruzione a servizio dei meno fortunati.
Al lato opposto della città altre suore, dedite ed energiche, sono le Sorelle della Carità di Madre Teresa che insieme ad infaticabili collaboratrici esterne, ma anche grazie ad un flusso nutrito di volontari si occupano dei bimbi orfani e disabili e delle donne malate.
Questa realtà è ancora più forte di quella degli slums, le parole qui servono a poco, qui si parla con gesti delicati, guardandosi intensamente negli occhi, stringendosi le mani perché spesso con alcuni bambini sono gli unici contatti che si possono avere, perché la vita li ha costretti su una sedia a rotelle, al mutismo, all’impossibilità di mangiare o vestirsi soli, o all’abbandono e alla scelleratezza proprio di chi li ha messi al mondo, di chi avrebbe dovuto amarli forse ancor di più di quanto si ami un figlio perfettamente sano.
È stato quando per la prima volta mi sono trovata spettatrice di questa realtà, colma di rabbia e di commozione, che sono stata assalita da tanti dubbi, tra tutti quello con cui ho cominciato questo racconto “come faccio a pregare un Dio che vuole tutto questo?”
Mi sono sentita inadeguata, in colpa, mi chiedevo per quale ragione io fossi lavata, nutrita, perché potessi avere un letto caldo in cui coricarmi la sera…dubbi ed emozioni che hanno assalito molti di noi nei momenti di condivisione profonda che abbiamo avuto, perché vedere o immaginare la sofferenza smuove tutti, ma toccarla con mano è completamente diverso, tira fuori parti del nostro io più recondite, forse la parte più vera.
Qui Dio ci insegna a prendere questa parte e metterla a disposizione di chi ne ha più bisogno perché quando la vita ti concede la fortuna di incontrare certi occhi, farti assalire di abbracci e tenerezze, far addormentare un bambino tra le tue braccia, farti coinvolgere nei loro giochi capisci che in realtà Dio c’è e ti sta dando l’opportunità di essere spettatore della sua presenza.
La sofferenza esiste ed è tangibile, ma siamo noi i responsabili, ciascuno di noi in quanto essere umano, e sta proprio a noi quindi provare a cambiare le cose, perché l’indifferenza è il peggiore dei mali, fa male più delle parole, più delle percosse, con il tempo uccide.
Ricordo con profonda tenerezza Ilary, un bimbo di nove anni dello slum di Qwaery, con la curiosità tipica dei bambini mi porgeva tante domande, tra le tante una in particolare: “Do you know Jesus?”
Gli sorrido, forse prima di allora non avrei saputo rispondere, ma oggi posso dire con gratitudine che tra la spazzatura, l’AIDS, gli odori taglienti, si! Io Dio l’ho conosciuto.
Diletta
Ventinove dodici… on the road!!!
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