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Lasciatemi in pace, voglio essere un’isola.

Sembra opportuno chiarire subito le cose: oggi è impossibile essere un’isola.  Si perdoni il tono assertivo di questo incipit, ispirato da una citazione che ben precede il sogno del fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, di vedere tutto il mondo connesso sullo stesso social. Ernest Hemingway, con il suo romanzo “Per chi suona la campana?” ricorda le parole del poeta londinese John Donne, il quale, già a metà del sedicesimo secolo, rispondeva: “la campana suona per te”.

E subito la Terra diventa un piccolo paese sperduto tra colline lussureggianti, dove ciascun abitante, a testa bassa, sembra condurre, da sempre, la stessa vita meccanica e strettamente funzionale alla sopravvivenza. Un rituale, però, spezzato dal suono delle campane parrocchiali; la puntuale somministrazione di un antidoto all’individualismo, in tutte le sue declinazioni, che tiene in vita quegli abitanti nella loro condizione esistenziale più sincera: essere una comunità.  E’ una parola, quest’ultima, particolarmente rivelatrice. Deriva dal latino “cum-munus[1]. Il termine “munus” registra più significati, relativi a due campi semantici opposti tra loro: gratuità e obbligatorietà. Ad esempio, era un “munus” l’offerta che gli uomini porgevano agli Dei. Secondo un’interpretazione più moderna, dono e dovere, nel loro sovrapporsi, ricomprendono, dunque qualsiasi possibilità di relazione umana, rappresentando il luogo dove lo sforzo, il pensiero, l’amore, l’odio e gli altri sentimenti trovano un fondamento comune: un grande spazio delimitato da sedie poste in cerchio.

Secondo alcuni, il Coronavirus rappresenterebbe una sfida difficile e sproporzionata: l’essere umano contro un male inevitabile. Ragionando in questi termini, però, si rischia di cadere nell’errore di prospettiva compiuto dalle persone che dimenticano il suono di quella campana, che le mettono la vibrazione o la regalano ai nipoti perché possano scaricarne la batteria. Invero, la pandemia rappresenta la prima sfida degna della comunità, che i tempi moderni abbiano conosciuto; la prima battaglia che quest’ultima gioca ad armi pari.

Si intende, dalla voce di psicologi e sociologi, studiosi dell’uomo, che la quarantena stia risvegliando il desiderio di condividere la vita con gli altri. Restare a casa fa sentire la mancanza del gruppo, anche di quei “disturbatori seriali”, ai quali, spesso, si associano i più variegati avvisi di chiamata, attingendo tra i versi della savana e le voci di attori comici degli anni novanta. Pertanto, sarebbe la nostalgia a generare il desiderio. Qui, si preferisce un’altra prospettiva:

 

#iorestoacasa, proprio perché sono parte di una comunità 

E’ la strategia che il gruppo adotta per sconfiggere, insieme, questo male. Alcuni vengono mandati in trincea; altri rimangono a sorvegliare le provviste; altri ancora spiegano al popolo cosa sta accadendo. Secondo questo schema, ognuno dovrebbe avere il suo ruolo, perché l’unione di tutti rende forti tutti. La stampa internazionale è, però, costretta a riportare notizie come quella del 22 aprile 2020[2]. Cartelli con su scritto “Land of the free”, sfoggiati da imponenti jeep, tentano di superare la barriera umana di medici e infermieri i quali, bloccando le strade, impediscono il proseguimento delle proteste anti-confinamento. Centinaia di persone si sono mobilitate negli USA, per richiedere la cessazione delle misure restrittive e la riapertura delle attività commerciali. Evidentemente la chiusura totale delle filiere produttive, dai piccoli commercianti, agli investitori qualificati, crea rilevanti disagi e situazioni di precarietà. Ma l’errore fondamentale, qui, coinvolge il pretesto: la libertà. Non si rende necessario passare in rassegna le Costituzioni più democratiche della terra, per ricordare che ogni libertà incontra il suo primo limite nella libertà dell’altro (intesa come diritto a un bene fondamentale). Su questo gioco di forze e pretese che minaccia l’equilibrio dell’essere umano, Papa Francesco è intervenuto con una parola severa e profetica: “Mentre pensiamo a una lenta e faticosa ripresa dalla pandemia, […] il rischio è che ci colpisca un virus ancora peggiore, quello dell’egoismo indifferente. Si trasmette a partire dall’idea che la vita migliora, se va meglio a me, che tutto andrà bene, se andrà bene per me[3].

Tra qualche riga, al lettore sarà regalato un biglietto aereo per attraversare l’oceano e giungere in una di quelle terre dove il confinamento, nelle sue estreme difficoltà applicative, si trasforma in emergenza umanitaria diffusa.

 

Silenzio, si dovrebbero ascoltare le campane

Percorrendo le strade che costeggiano il lago Naivasha, situato a circa cento chilometri a nord di Nairobi, non passano inosservate le immense distese di serre adibite alla coltivazione dei fiori. In quei luoghi, vengono prodotte le rose che, tagliate, imballate e, talvolta, prezzate, finiscono sugli scaffali dei negozi europei già dal giorno successivo (circa il 50% giungono in Olanda). Nel 2019, l’industria floricola del Kenya ha raggiunto un valore pari a 1,1 miliardi di dollari (circa lo 1.06% del PIL)[4], rappresentando l’8% delle esportazioni. Si tratta di un mercato in continua crescita, ma la cui fragilità deriva, innanzitutto, dalla deperibilità della materia. Secondo le stime del Kenya Flower Council, a causa del blocco che ha interessato il traffico aereo in occasione della pandemia, la capacità di carico settimanale attualmente disponibile è di 1.300 tonnellate, a fronte di una domanda pari a 3.500 tonnellate.

L’Africa non rappresenta il continente maggiormente interessato dalla diffusione del Covid-19. La crisi direttamente riconducibile alla pandemia è di natura economica, con le conseguenze sul piano sociale e politico che si protrarranno nei prossimi mesi. Se la drastica interruzione delle relazioni commerciali con la Cina ha favorito l’arresto del traffico illegale di legname dalla Sierra Leone, la stessa nota di positività non è rinvenibile nella generalità dei contesti, specialmente, sud-sahariani. E’ opportuno ricordare che tra il 2000 e il 2018, il “Beijing consensus” sugli Stati africani ha subito un incremento di circa il 200%, passando da 10 a 204 miliardi di dollari. L’interesse crescente della potenza orientale nei confronti del Continente più povero del mondo è il componente di una strategia ben nota. Sin dal 2013, la Cina si impegna nella realizzazione di un progetto infrastrutturale – ricompreso nella più ampia “One Belt, One Road Initiative” – attraverso il quale Pechino potrà godere di un agevole collegamento con le potenze commerciali europee. Le reti stradali e ferroviarie finanziate in Nigeria, Kenya, Zambia ed Etiopia sono tra i più rilevanti segni visibili di questa azione. Inoltre, a presidio di questi nuovi traffici interessanti il Corno d’Africa, nel 2017 la Cina ha collocato a Gibuti la prima base militare in terra straniera, garantendosi, tra l’altro, una posizione strategica, sul Mar Rosso e sul Canale di Suez.

In questo contesto di crescente dipendenza economica, il Covid-19 è intervenuto – si potrebbe affermare – per scoprire le carte. Secondo i dati dell’Observatory of Economic Complexity, la percentuale di complessità delle economie africane è spesso sotto lo zero. Le sole esportazioni di petrolio grezzo in Ciad ammontano al 91%; in Angola toccano l’88%. In Malawi, il tabacco grezzo rappresenta il 71% delle esportazioni. Altri sistemi – come il Ghana e il Sudan – sono caratterizzati da una diversificazione lievemente maggiore (oro e petrolio grezzo, nei due Paesi appena ricordati). Evidentemente, all’arresto della domanda cinese di materie prime, consegue la crisi di quei paesi ad economia monocromatica, che traggono dal commercio con Pechino la maggiore fonte di valuta estera. L’interruzione degli scambi con la potenza orientale maggiormente colpita dal Covid-19 ha effetti anche sul lato della domanda: le scorte africane dei prodotti convenienti cinesi iniziano a scarseggiare. Il dato più preoccupante, sul versante della domanda, riguarda l’importazione dei macchinari industriali e dei mezzi di trasporto, che copre più del 50% dell’intero fabbisogno nel Continente[5].

Basta numeri, che vuol dire?

Nel suo libro “Korogocho”, padre Alex Zanotelli racconta la storia di Kasui (bambina di sette od otto anni) e Kimeo (bambino di tre o quattro anni), due fratellini che persero la mamma e, dopo due mesi, la sorella maggiore, a causa dello stesso male: l’Aids. “Un giorno, una donna si accorse che stava accadendo qualcosa sui cigli del dirupo che sovrasta la pozzanghera (sarebbe troppo chiamarla laghetto) che divide Korogocho dalla discarica. Una ragazzina tentava di trascinare con sé il fratellino, per gettarsi assieme a lui nell’acqua. La donna riuscì ad avvicinarsi lentamente e ad afferrarla. Era Kasui, con il piccolo Kimeo. Me li portò a casa. Mentre mi raccontava la storia, sentivo un pugno allo stomaco: mi sentivo responsabile, un verme. […] Ma presto li persi di vista: Korogocho è talmente caotica, le tragedie così tante…”[6].

Respiriamo

Korogocho, nella lingua kikuyu, vuol dire “confusione”. E’ il nome di una delle 110 baraccopoli di Nairobi, dove vivono circa 200.000 persone, in un’area di un chilometro e mezzo. Nella capitale del Kenya, la metà degli abitanti (circa 2,2 milioni di persone) vive nell’1,5% del territorio complessivo. Le baraccopoli – o “slum” – sono degli agglomerati di abitazioni informali realizzate, per lo più, con legno e lamiera. Al loro interno, vivono intere famiglie in condizioni scarse di igiene, di sicurezza fisica e alimentare, di accesso alle fonti energetiche, all’educazione e agli altri servizi considerati “essenziali” da chi può permettersi anche quelli che tali non sono. Si tratta di realtà dove il diritto non riesce a penetrare, se non armato di minacce, coltelli e avvisi di sfratto. La dipendenza dalle droghe, la prostituzione e l’abbandono dei minori sono fasi obbligatorie della crescita. I più “fortunati”, come gli abitanti di Korogocho, hanno la possibilità di rovistare tra i rifiuti di una discarica, attendendo che le compagnie aeree vi rilascino i pasti avanzati dalle distribuzioni a bordo. Discarica è sinonimo di cumuli di scarti che valgono oro, accessibili tramite un biglietto che costa denaro e sottomissione alle regole del clan di turno.

Le raccomandazioni e le misure adottate dal Governo kenyota per contrastare la diffusione del Covid-19 rispecchiano quelle varate dai paesi più industrializzati del globo. Sin da subito, il Ministero della Salute ha diffuso il vademecum relativo alle pratiche di igiene personale. il Presidente Hururu Kenyatta ha chiuso le scuole e imposto ai Keniani di restare a casa. Il Governo, inoltre, ha richiesto alla Central bank of Kenya di abbassare il tasso dall’ 8,25% al 7,25% e di ridurre il coefficiente di riserva obbligatoria dal 5,25% al 4,25%, per aumentare la liquidità alle banche; quest’ultime, a loro volta, saranno in grado di fornire servizi di prestito ai cittadini in difficoltà. Pertanto, l’emergenza potrebbe contenersi, se fossimo a Roma, Parigi o Berlino. Negli slum di Nairobi, il sapone viene scambiato con la zuppa; l’ obbligo di restare a casa incontra la difficoltà oggettiva relativa all’assenza della stessa (o alla sua assoluta inagibilità); i settori più fiorenti dell’economia girano intorno a pratiche informali, inidonee a garantire la sussistenza giornaliera e, evidentemente, l’accesso al credito, pur agevolato.

Human Rights Watch riporta la notizia del 22 aprile 2020, sulle proteste contro il coprifuoco, organizzate nei primi giorni di emergenza Covid-19. Durante gli scontri a fuoco con la polizia, un ragazzo di 13 anni è rimasto ucciso, mentre prendeva parte alle proteste dal suo balcone. Non stava lì per cantare, organizzare flashmob mediatici o per gridare “land of the free”.

E poi arriva Giacomo

Alcuni si domandano: “cosa posso fare, a fronte di questa situazione emergenziale?”; altri azzardano, rispondendosi qualcosa; altri ancora aggiungono un’azione. La quarantena vissuta dalle case confortevoli del Nord comporta, senza dubbio, una compressione della libertà individuale, la quale cede, nella sua imperturbabilità, all’esigenza di tutelare la salute delle persone. Chiaro, come fosse matematico. Il mondo del volontariato non è rimasto inerme. Il giovane, dalla sua stanza, si è sensibilizzato; l’associazione che lavorava sulle borse di studio per studenti keniani, adesso pensa anche al cibo per le loro famiglie. L’emergenza derivante dalla pandemia ha trovato, in quel ponte di solidarietà che collega parti improbabili della Terra, terreno fertile per recuperare speranza.  Da qui, il virtuoso impiego delle ICT, rivolto al bene dell’essere umano; il proliferare delle iniziative di crowdfunding, a sostegno dei progetti incentrati sul sostentamento e sulla ripresa delle popolazioni fragili come un fiore già colto.

La Onlus giacomogiacomo è una rotella di quell’enorme macchinario talmente sofisticato, da creare il valore giusto, esattamente nel luogo in cui scarseggia: sociale da un lato, materiale dall’altro. Avevo diciassette anni quando un saggio anziano mi convinse della verità di un assunto: non esiste nulla di più potente delle gratuità. Immaginiamo se, in una grande azienda, ciascun dipendente decidesse di compiere, ogni giorno, un’azione di bontà gratuita per un collega. Se un gruppo di persone, avviate nel percorso della vita, decidesse di riunirsi intorno a un tavolo per addossarsi il carico finanziario della costruzione di una scuola. Se una squadra di post adolescenti, attenti al suono delle campane tra una birra e l’altra, facesse volare degli aquiloni colorati in uno slum di Nairobi. Se tutto ciò accadesse ogni volta, sarebbe più facile sentirsi parte della stessa comunità.

Se (è l’ultimo, lo giuro) l’articolo sia stato di tuo gradimento, aiuta giacomogiacomo a raggiungere il suo obiettivo di crowdfunding. La raccolta è destinata a supportare il Padre Comboniano Maurizio Binaghi, in servizio presso la diocesi di Kariobangi (slum di Nairobi), nel progetto di assistenza alle famiglie della scuola di San Martin. Se leggi “Tuko Pamoja” ovunque, non ti spaventare. E’ il nostro “motto” e in swahili vuol dire: “Tutti insieme”.

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[1]Esposito R., “Communitas. Origine e destino della comunità”, Einaudi Editore, Torino, 1998.

[2] Per la notizia, si consulti: https://www.bbc.com/news/world-us-canada-52371977.

[3] Tratto dall’omelia della Santa Messa della Divina Misericordia, pronunciata da Papa Francesco il giorno 19 aprile 2020.

[4] Per maggiori informazioni, visitare il sito www.kenyaflowercouncil.org.

[5] Chilufya C. S.I., “L’economia africana è contagiata”, in: “La Civiltà Cattolica”, Quaderno 4076, Anno 2020, Volume II, pag. 155 – 162.

[6] Zanotelli. A., “Korogocho. Alla scuola dei poveri”, Feltrinelli editore, 2003, Milano, pag. 54.

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