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Per la prima volta stamattina realizzo quale sia il contesto geografico di Nairobi e del nostro Compound.

Ci svegliamo prima del solito e saliamo sullo scuola bus in direzione sud ovest. Qui la quota di Nairobi (1795 metri sul livello del mare) si esprime per la prima volta nel suo massimo. La città lascia spazio a grandi vallate, simili a canyon, in cui il verde prevale e l’occhio fatica a trovare la mano dell’uomo.
La strada che percorriamo, è estremamente frastagliata e punta verso il confine con la Tanzania.

Dopo tre ore di viaggio, intrattenuti da Luigi e la sua chitarra e da Lulù e le sue parole crociate, arriviamo ad un villaggio Masai. È qui che passeremo la giornata.

Scendendo dal bus mi accorgo che l’idea di villaggio che mi ero fatto era ben distante. Quello che vedo sono solo capanne di paglia e legno nascoste nel verde e molto distanti tra loro. In mezzo una struttura più grande fatta di lamiera che sembrerebbe il punto di ritrovo per la comunità Masai che avremmo conosciuto di lì a poco.

Ci accolgono una ventina di donne. Mi sorprende da subito il colore dei loro vestiti. Verde, arancione, blu notte, rosso, giallo. Il tutto arricchito da bellissime collane e bracciali. Tutto quel colore e l’energia del loro canto di benvenuto danno subito un’identità a quella steppa arida e calda sotto il sole battente.

Entriamo tutti nel capanno di lamiera. Qui abbiamo modo di comprendere a pieno il lavoro svolto dalle Evangelizing Sisters of Mary nel fornire supporto e aiuto alle donne e i bambini che abitano luoghi così remoti. Ognuno di noi ha modo di presentarsi e decidiamo di distribuire dei pezzi di panettone a tutti i presenti.

Le donne ci mostrano gli oggetti creati da loro e come l’acquisto di questi sia per loro un riconoscimento del lavoro svolto. Il senso di comunità si esprimeva anche nella distribuzione degli incassi, i soldi venivano immediatamente dati a chi aveva creato quell’oggetto.

Usciti dal capanno abbiamo notato ancor di più quegli sguardi di stupore e curiosità che ci venivano rivolti, e quegli stessi occhi ci hanno guidato verso le loro capanne per mostrarci quale fossero gli spazi in cui vivevano. Ci dirigiamo verso una casa e con curiosità cominciamo a provare a scambiare due parole con una donna, si fa fatica, si avvicina un ragazzo, il figlio, per aiutarci a comunicare con lei.

Lungo il tragitto notiamo dei barili di plastica dove ci spiegano essere i contenitori di acqua per sostentare la famiglia e il bestiame, il ragazzo ci spiega che l’acqua non é abbastanza e che chi dovrebbe portarla a volte non lo fa, ma qui torna ancora una volta quel senso di comunità proprio perché alcune popolazioni vicine si fanno carico di questo aiuto quando loro non possono averne. Quei stessi contenitori andrebbero riempiti 3/4 volte a settimana, il costo per loro non é irrisorio e di nuovo ci si rende conto come quegli oggetti acquistati siano di grande valore.

Il ragazzo ci fa strada verso la capanna sulla destra dove ci spiega che lì viveva il nonno molto anziano, oramai non più vedente, ma con ancora tanta forza. Il ragazzo ci invita a entrare e con capo chino arriviamo dinanzi al nonno molto anziano, ci presentiamo uno ad uno con una stretta di mano che dura per molti secondi, come se quell’incontro non dovesse mai spezzarsi, ed é infatti proprio lí che il nonno ci chiede di pregare per lui e continuare ad aiutarlo. Usciti dalla capanna notiamo l’arrivo di due uomini, mariti che tornavano dal lavoro e si chiedevano chi fossimo, noi chinandoci con un cenno di capo lì salutiamo in forma di rispetto.

Ci avviciniamo alla seconda capanna dove l’intera famiglia viveva, quella capanna costruita dalla mamma e della quale si prendeva cura, ricostruendola nel momento in cui non fosse più sicura, ritorna in mente l’immagine della donna che ancora una volta si prende cura del proprio nucleo, di nuovo é la figura femminile che si fa carico di questo arduo compito. Ci spiegano come era suddivisa la capanna, a chi fossero assegnate le stanze e ciò che erano soliti fare come una tazza di té al mattino, momenti di vita quotidiana che ci riportano inevitabilmente alla nostra. Usciamo dalla capanna e in forma di ringraziamento regaliamo loro un panettone. Salutiamo di nuovo con il capo chino e andiamo via quasi in punta di piedi come segno di rispetto, ci allontaniamo dalle abitazioni e veniamo riportati indietro al bus, torniamo alla nostra realtà ricordandoci di chi siamo e facendoci sentire in quel momento così inadeguati davanti a una folla di adulti e bambini che lottano per cibo e acqua quotidianamente, chi per sé e chi per la propria famiglia, come quelle donne che sorreggono la propria.

La principale riflessione di oggi è legata alla possibilità di fare un parallelismo tra la miseria vista negli slam (in particolare quella di Bangladesh) e quella del villaggio Masai.
Molti di noi si interrogano su quale sia la miseria peggiore in cui vivere.
Difficile giungere a una conclusione ma per quel poco che ho potuto vedere e capire, ho visto negli occhi degli adulti del villaggio Masai ciò che negli slam di Nairobi riesci a vedere solo nei bambini.

È possibile quindi che si tratti di un altro tipo di miseria, forse più naturale e lecita. Una miseria che preserva e definisce l’umanità e l’identità del popolo Masai. Un tipo di miseria alla quale non saremo mai abituati e con la quale non saremo mai d’accordo ma semplicemente perchè anacronistica.

Rimane pur sempre miseria ma fortunatamente si allontana di tanto da quella deumanizzante degli slam.

 

DAY EIGHT – FRANCESCO E. & MATTEO F.

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