Per la terza volta oggi sono nella grande chiesa di Kairobanghi, per la messa domenicale. Partecipare ad una messa africana è ancora per me un’emozione fortissima. Innanzi tutto per la gente: chiesa piena già all’inizio, tutti col vestito e la cura personale della festa, moltissimi giovani. Ma soprattutto per lo spirito e i segni che animano la liturgia, che di solito ripetiamo stancamente, e che qui diventano canto e corporalità, sorrisi, mani battute e agitate, processioni ballate di bimbi e adulti. Un’esperienza di fede semplice e gioiosa che colpisce fisicamente e nell’animo. Niente a che fare con quelle cose un po’ naïf che qualche movimento ecclesiale ci propone nelle nostre città. La chiesa occidentale, la nostra chiesa, sarà prima o poi travolta e convertita dai ritmi e dalla fede delle chiese del sud del mondo. E papa Francesco credo che questo lo sappia molto bene! Qui si comprende chiaramente che se la Chiesa è una e ha la sua ‘testa’ a Roma, sulla tomba di Pietro, i cuori della Chiesa, che la rendono viva da duemila anni in ogni epoca, sono nella fede grande del suo popolo di battezzati. Le elaborazioni più o meno colte e teologicamente innovative, le gerarchie e le prefetture servono a preservare la Fede solo se accolgono la spinta genuina e continua a fare di più, al ‘Magis’, che viene dai popoli. Tutti i cattolici dovrebbero partecipare ad una messa africana.
Romolo
La messa del primo gennaio nella parrocchia di Kariobangi. Sette ore di volo per andare a passarmi il primo dell’anno in Chiesa. ‘Alberta si è impazzita’ penserà chi mi conosce da Roma; e invece sto meglio di sempre.
“Libertà è partecipazione.” Quanto mi piace questa frase, e anzi ringrazierò Gaber per averla creata e messa a nostra disposizione, lo ringrazierò per averci dato uno spunto di riflessione così forte. PARTECIPAZIONE. Bhè allora questo popolo di neri è più che libero, tutti partecipanti alla messa, tutti insieme a noi: una macchietta bianca con i posti riservati in seconda e terza fila. La prima fila è invece per le famiglie del “corpo di ballo” della parrocchia. Quindi una grande folla alla Messa di padre Felipe, che quest’anno durante l’omelia gliele ha suonate, riportando la popolazione delle baraccopoli alle proprie responsabilità di essere umani in questo mondo, non parlando di colore, ma di cuore. Quello è uguale per tutti, o almeno dovrebbe. C’è chi celebra la messa in piedi, fuori dalla porta, vicino alle finestre, tutti rivolti verso questo palchetto, verso lo stesso centro. Sulle pareti, vicino al soffitto, rappresentazioni di parabole del Vecchio e Nuovo testamento, dove i personaggi vengono raffigurati neri, una cosa che a me piace moltissimo. Le bambine danzano vestite di mille colori, i chierichetti hanno semplicemente una tunica bianca dipinta a macchie, con l’acqua, come è tipico dipingere qua le stoffe. Ovviamente tutti ci guardano, ma la curiosità è reciproca. Al momento della raccolta delle offerte, si forma una lunga fila, anzi più file, e la gente dona soldi, soldi che non hanno, veramente non so da dove li tirino fuori. Mi domando perché decidano di donare il poco che guadagnano alla parrocchia, poi mi rispondo che sicuramente qualcosa gli torna, che evidentemente un motivo ci deve essere. Comunque ancora non capisco. Cerco di osservare: in pochi lavorano, alcuni campano, molti sopravvivono, ma tutti donano. Dopo l’offerta in denaro, arrivano le offerte in doni materiali: farina, carta igienica, saponi, alimenti di ogni genere. PARTECIPANO con quello che possono. Facciamo lo stesso in Italia? Boh, non lo so. Sicuramente il mio stupore è evidente, forse derivante dal fatto che non sono abituata ad assistere a tutta questa dedizione, neanche allo stadio durante il derby. La gente canta, a pieni polmoni, o sottovoce, ma con il cuore uno nella mani dell’altro, un po’ come capita a noi del gruppo, qua, a Nairobi, durante il campo. Poi in Italia?
Mi domando se noi partecipiamo così alla vita, o se siamo talmente abituati a rinnegarla che ci siamo dimenticati come si vive. Quando si vive. Perché si vive. Questa, almeno per me, sì che è una domanda. Tutti, però, dentro quella parrocchia sembrano avere la risposta.
Quanto mi piace la messa del primo gennaio a Kariobangi, è un rito che mi mancherà. Non fraintendetemi, o di nuovo, non pensate io sia pazza, se non ci stai non puoi capire. L’essere umano è fatto per essere stimolato, stuzzicato, sfidato, e questo lo si trova tutto: colori, odori, visi, una lingua diversa, accenti, tonalità di voce, e ancora colori, immagini, occhi, occhi chiusi, mani unite, aperte, chiuse contro il petto. Tutte cose che secondo me si esulano dal discorso della fede, perchè chiunque abbia interesse/curiosità sono sicura la penserebbe come me. Bisogna essere spugne, spugne di esperienze.
A me piace il rispetto, e ne faccio proprio una questione personale. Durante quella messa, oltre all’odore di cibo africano, si respira un grande e profondo rispetto, che mano a mano ogni giorno sto scoprendo essere sempre più legato, e questa volta sì, ad un discorso di fede. Si può essere rispettosi verso il prossimo, anche senza dover dargli un nome? Io sono stata cresciuta da un ateo, ma ho deciso anche di leggere la parola di Gesù, e mi sono resa conto che la mia condotta non si allontana troppo da quello che lui insegna e professa. Allora perché, anche chi possiede la fede, tradisce questi stessi insegnamenti? Perché tutto deve essere strumentalizzato? Partecipando come mera osservatrice a questo rito così sentito, non percepisco alcun tradimento, alcuno strumento, però messo piede a Roma ne vengo invece sommersa. Non capisco, e quando non capisco mi stranisco. Loro rendono tutto più semplice, quasi ovvio, perché secondo me loro partecipano con il cuore, non con i piedi o lo stare lì. Donano soldi che non hanno. Noi non riusciamo neanche a lasciare la mancia al cameriere.
Finisco sempre per fare un confronto tra noi e loro: ancora, cerco di capire. Di capire dove l’uomo bianco si è perso, mentre quello keniota (conosco per adesso solo questo) sembra bello impostato, sicuro, retto. Perché nelle messe in italiano non si battono le mani? Perché non si canta ogni tre parole del prete, come si fa a Kariobangi, sopratutto se “cantando si prega due volte”. La loro partecipazione è quello che mi ha colpito più di tutto
Ironia della sorte anche noi, gruppo di wazungo, qua siamo super partecipanti, come oggi alla messa nella piccola chiesetta costruita dai prigionieri di guerra italiani. Facciamo tutto insieme, TukoPamoja, ormai vi abbiamo rimbambiti con questa parola, e a me personalmente mi ha aperto la testa: NOI QUI TUTTI INSIEME ORA. Quando lo dico a loro sorridono, quotidianità. Per carità rubano, si picchiano, corruzione, illegalità e tutto quello che il sud del mondo può far venire in mente: ma più affondi i piedi nella povertà, più questo TUKO PAMOJA prende senso e viene scritto a caratteri talmente grandi che la Terra sembra non conoscerne i fogli.
Quindi, in conclusione, mi ritrovo d’accordo con Romolo, nonostante il nostro opposto rapporto con la fede e sperando di aver capito il suo pensiero, mi lancio: dovremmo tutti essere un po’ più black.
Aggiungo, condividendo con voi un’altra conversazione che ho avuto con le ragazze madri, che mi mette tutto in confusione, spero voi siate più risoluti:
“Albi, do you go to church?”
“No, I don’t”
“Are you pagan?”
“Yes, I am”
“Ohh lucky you! I wish I could be pagan!”
Alberta (che ancora non capisce, e ancora si stranisce)
#TukoPamoja
Grazie Romolo, grazie Alberta.
Con le vostre parole mi avete fatto rivivere la stesse emozioni provate 5 anni fa alla Messa a Kariobangi. Come fossi nuovamente lì.
Le sagge parole di Romolo cosi chiare e conosciute in questi 40 anni e passa di amicizia, fratellanza e condivisione…
La freschezza di Alberta, che invece conosco solo di nome, fa intuire desiderio di interrogarsi, di mettersi in ascolto e in cammino con onestà e umiltà.
Chiudo la giornata in bellezza.
Orivox
Ricordo spesso anche io con grande piacere la messa di Kariobangi. Suoni, colori, odori, danze. Visi. Mani. Una volta vissuta, quella esperienza non va più via dalla mente, soprattutto se confrontata invece col rigido formalismo e il senso di rassegnazione delle nostre celebrazioni liturgiche.
In Kenya la messa è “viva”, da noi quantomeno “dormiente”, per non dire “spenta”…
Fa sempre piacere leggere i resoconti della vostra giornata. Per chi come me è in ufficio è senza dubbio un toccasana per l’anima…e non potrebbe essere altrimenti.
Saluto tutti i “vecchi” che ho rivisto nelle foto (penso a Guido, Diletta, Gianmarco, Silvia, Alberta…) e mando un saluto grande ai nuovi, a coloro che fanno per la prima volta il campo, perchè si trasformerà sicuramente (se non è già successo) in una delle esperienza più intense della vostra vita.
Un saluto come sempre a Paola, che con il suo indefesso lavoro rende possibile tutto questo.
UBUNTU!
Marcello
Innanzitutto vi ringrazio per la testimonianza. Leggendo vengono alla mente tanti stimoli, domande, spunti di riflessione, voglia di cambiare, di lasciarsi interrogare, sentimenti di vita vissuta nella verità, … ma soprattutto voglia di partecipare al campo!
Un grande abbraccio.
Sto seguendo questo blog e queste testimonianze e con commozione e timidezza non ho mai scritto. Ma sentendo parlare di Partecipazione ho deciso di essere partecipativa anche io e dirvi quanto sia bello essere trasportata da questo turbinio di emozioni, divertimento e riflessioni. Credo sia banale pensare che loro partecipino perché gli è realmente permesso partecipare, perché le omelie sono un po’ riferite ad ognuno di loro, e in fondo riescono a mettersi molto più di noi in discussione o anche solo ad accettare la vita così come è, e pensare di amarla per migliorarla. Questo è quello che mi arriva dai vostri scritti, una sorta di insolita positività tradotta dai canti, dai balli e dalle donazioni. mi piace la tua tenera ironia Alberta, non sei stata cresciuta da genitori religiosi, ma è bello sentirti così partecipativa. Anche più dell’anno scorso (?) , sarà che anche tu quest’anno riesci a metterti più in discussione e accettare (e amare ) la vita?! Ci sarebbero mille cose che vorrei chiedere, mille spunti e mille pensieri che mi attraversano. Sarà bello soffermarmici in questi giorni, e magari riempirti la testa di domande al tuo ritorno. Mi chiedo come deve essere commuoversi sul campo, piuttosto che da dietro il telefono… E mille altre cose. avanti ragazzi, vi leggo!