Non so più dire se sia giorno o notte, le mie scarse tre ore di sonno mi fanno da sostegno all’arrivo a Nairobi. Sul pullman verso il compound delle Evangelizing Sisters Of Mary guardo Anna, la mia amica che ha deciso di dividere con me questa esperienza. Abbiamo sonno, ma di colpo le dico guarda e le indico il cielo. Ha un colore sfumato dai vetri scuri del nostro enorme mezzo di trasporto, ma posso dire di già che io un’alba cosi non l’ho vista mai. Svuotare tutto il materiale è la prima cosa che facciamo appena arrivati: apro il valigione che ho portato e distribuisco gomitoli, corde per saltare, palloncini, salviette e tutto quello che le persone a casa mia mi hanno dato. Guardo quante cose abbiamo raccolto e perdo il conto dei pacchi di pennarelli che ci sono sul tavolo. È pazzesco come il bene generi bene. Facciamo colazione e incontro Fides che ha un sorriso talmente bello che quando mi abbraccia e il suo viso si nasconde dietro di me, io comunque posso continuare a vederlo quel sorriso. Mi dice alcune parole in swahili, la sua lingua, mi dice karibu, benvenuta, e mi insegna a rispondere Asante Sana, grazie. Mi dice che da oggi in poi ci chiamerà wazungu, bianchi, e mi piace perché effettivamente bianca lo sono. Siamo pronti al giro del compound: davanti la giacomo hall parte il racconto della storia della scuola che ci ospita, dei ragazzi che con Giacomogiacomo hanno ottenuto una borsa di studio e oggi sono professori volontari e mentori. Incontriamo alcune sisters che preparano il mangime delle mucche e altre che cucinano. Poi Fides e Simon ci raccontano i progetti che fanno qui insieme a Giacomogiacomo: ci dicono subito che i ragazzi per mantenere le loro borse di studio devono ottenere voti alti, che il progetto di nutrizione e quello di prevenzione e cura della malattie sono legati perché si influenzano a vicenda, che qui si raccolgono i contratti delle case in affitto per assicurarsi che siano giusti ed equi e che facciano gli interessi di chi li sottoscrive. Ci raccontano del progetto di empowerment femminile di Inua Mama e di come attraverso l’apprendistato aiutino le donne ad imparare un mestiere ed emanciparsi. Nella mia testa mi dico che l’indipendenza è la chiave di tutto questo: l’istruzione rende indipendenti, il denaro ti rende indipendente, la salute fa lo stesso. Penso a quanto per me sia scontato essere una donna di trent’anni indipendente e quanto quell’istruzione, quei soldi e quella salute io non abbia mai dovuto metterli in discussione, perché sono parte del pacchetto base nel mio paese. Qui no, qui ogni pezzo di indipendenza è un mattone messo su a fatica, da una squadra e non da soli, e d’altronde si dice che se vuoi andare lontano devi andare insieme. Prima di andare a pranzo passiamo dal vicino ospedale che è stato rimesso in piedi da alcuni medici italiani, ci raccontano che qui i problemi sono tanti e i soldi pochi. Che in un anno hanno messo su alcune belle cose, tipo un incubatrice perché le nascite sono tante, anche se lo sono anche le morti. Se qui arriva qualcuno in condizioni critiche e non ha l’assicurazione, spesso si può fare poco e l’unica cosa è accompagnarlo dall’altra parte. Tornando verso il compound mi fermo a parlare con Martin, il figlio 16enne di Fides. Parliamo del caldo che fa in Kenya e del freddo che fa in Italia. Mi chiede cosa faccio nella vita, rispondo che sono una statistica. Lui mi dice, io amo la matematica e voglio diventare un contabile da grande, fare marketing. Gli dico che di solito gli adolescenti odiano la matematica, ma lui no mi dice, a me piace tanto e voglio fare i miei soldi qui in Kenya, oppure studiare in Italia. Me lo dice con lo stesso sorriso di sua madre, saltellando mentre parla, muove le mani e gesticola come un italiano. Vivi in una casa da sola, mi chiede. Si vivo da sola. Anche io voglio una casa tutta mia, mi dice, per diventare indipendente. Martin cerca la sua stanza tutta per se, per citare Virginia Woolf. Una stanza che è la sua indipendenza, la realizzazione del sogno di fare della matematica il suo mestiere.
DAY ONE – MIRIAM